Monastero cistercense di Ss. Gervasio e Protasio

Le origini di questo monastero affondano le loro radici nel lontano medioevo. Baldovino, decano del Capitolo della chiesa di Belluno, coll’assenso del vescovo di Feltre, ai 13 di maggio 1212, da una donazione a Donna ACEGA di Belluno, la chiesa di SS. Gervasio e Protasio con tutta la terra e circuito relativo e diritti annessi e ciò per il corrispettivo di una libra d’incenso alla Cattedrale nella festa di S. Martino.  Chiesa e monastero, dietro istanza dell’abbadessa e delle monache, furono assoggettate da URBANO VI, nell’anno 1379 con Bolla Pontificia, data a: Viterbii idibus Martii, pont. An. I, ai Cistercensi della Follina e poi all’Abate dei Camaldolesi, successore dei Cistercensi in detto monastero.

L’atto “1212 – 13 maggio” è rogato dal Notaio Alberico, per ordine del decano Baldovino e alla presenza del Vescovo Filippo di Feltre e di Belluno.

Delle Abradesse, il primo nome che si conosce è quello di Donna Benedetta (1268-1272).

Dal 1379 al 1448, il monastero ebbe come superiori regolari gli Abati cistercensi della Follina, fino a quando subentrò l’Abate Commendatario Pietro BARBO, che divenne PAOLO II.

Tra gli Abati Commendatari, il monastero ebbe, come superiore regolare, anche S.CARLO BORROMEO.

L’anno 1572, il card. Commendatario Tolomeo GALLIO di Como, con Bolla Apostolica, unì alla Congregazione Camaldolese l’abbazia di Follina. Di conseguenza subentrarono quali superiori del monastero gli Abati camaldolesi, l’ultimo dei quali fu D. Mauro CAPPELLARI, che divenne Pontefice col nome di GREGORIO XVI.

Fino al Concilio di TRENTO (1563), il governo delle abradesse fu a vita.

In seguito a triennio.

Varie furono le calamità che il convento ebbe a subire attraverso i secoli.

Nel 1493, un incendio lo distrusse quasi completamente. Nel 1509, Massimiliano d’Austria, entrando vincitore a Belluno, impose al monastero forti contributi di guerra che si dovettero questuare per scampare al pericolo del saccheggio. Nel 1510, durante una grande carestia che colpì il bellunese, le monache si privarono del necessario sostentamento per soccorrere bisognosi e affamati. Tutte queste difficoltà temprarono fortemente il loro spirito. Dice il cronista: “A lode di Dio, dal quale proviene ogni virtù, su può asserire che, la Comunità ha sempre vissuto secondo l’osservanza regolare, distinguendosi nell’esercizio continuo delle virtù più luminose, prescritte dalla Regola di S. Benedetto e dalle Costituzioni cistercensi. La protezione del cielo si è mostrata anche visibilmente per intercessione dei santi titolari Gervasio e Protasio.

Una notte, alcuni giovani scellerati s’introdussero nel monastero e già stavano salendo la scala che conduce al dormitorio. Ma oh! Fatto ammirabile – a metà della scala che forma angolo, apparvero circondati di straordinaria luce i due fratelli Martiri GERVASIO e PROTASIO con la spada in mano. A quella vista, sorpresi, gli empi si diedero a precipitosa fuga. Così, per l’intervento miracoloso, le monache furono salve.

Tuttora, a perpetua memoria, si conservano a metà della scala, vicino al coro, nel luogo stesso dove apparvero i Santi Protettori, due piccoli quadri rappresentanti i SS. Gervasio e Protasio”.

Il fatto e documentato dal racconto di uno dei malintenzionati, presente al prodigio.

Con la soppressione degli Ordini religiosi (1810), anche il nostro monastero subì la stessa sorte, ma per pochi anni. Mentre prima della soppressione, le monache erano ventinove, nel 1810, anno della ripresa raggiunsero il numero di cinquanta, tra professe e novizie, con oltre venti educande.

Non tardarono però a profilarsi all’orizzonte nuove tempeste. Nel 1870, le autorità civili di Belluno,

avvalendosi della legge napoleonica sull’incameramento dei beni ecclesiastici, imposero alle monache cistercensi di abbandonare il monastero. Si ottenne che la Comunità potesse rimanere nel monastero, con il divieto di accettare nuove postulanti, finchè si fosse ridotta a sette membri. Allora la Comunità sarebbe stata considerata estinta e il monastero confiscato. Ciò avvenne nel 1909. La situazione era grave perché le monache non disponevano di mezzi per procurarsi un’altra abitazione. Per interessamento del Rev.do Mons. Benedetti si riuscì ad intravedere qualche nuova possibile sede, in S. Giacomo di Veglia, due barchesse di proprietà dei CONTI GROTTA di Venezia che erano state messe all’asta. Arrivò quanto mai inaspettato un lascito della sorella di un monsignore, che moriva a Belluno; la somma esatta per l’acquisto e per un primo adattamento dell’edificio a monastero. Triste fu la festa di S. Chiara in quel lontano 1909! Con due diligenze, la M. Abbadessa, Donna Giovanna RENIER, trasferiva le sue monache nella presente sede di S. Giacomo di Veglia. La Comunità lasciava un monastero che datata dal 1212 per sistemarsi in un ambiente inadatto alla vita contemplativa. Così, nella nuova residenza, la scuderia divenne il coro per la celebrazione dell’Ufficio divino e l’adorazione di Gesù Eucaristia. Le sale, dove gli ospiti si divertivano, divennero luogo di preghiera e di penitenza altare di immolazione.  Dopo sette secoli di permanenza, le nostre monache lasciavano Belluno. Nello stesso giorno venivano accolte, a S. Giacomo di veglia dalla popolazione in festa. Quella sera le campane suonarono a distesa per salutare l’insolito avvenimento. Dopo tante dolorose vicende, la vita monastica riprese con il suo solito ritmo, scandito serenamente nell’ORA et LABORA di ogni giorno. A pochi anni dalla felice ripresa, il primo conflitto mondiale coinvolse nel suo vortice anche il pacifico cenobio cistercense. Con la disfatta di Caporetto, gli invasori si stabilirono in casa nostra. Occuparono tutto un annesso del monastero, ma per visibile protezione divina, non recarono mai molestia alle monache. Negli ultimi giorni del conflitto, i combattimenti aerei si facevano proprio sopra il monastero. Una sola bomba incendiaria cadde nel solaio e si limitò a bruciacchiare un piccolo deposito di legna. Al momento della ritirata, nessun danno! Soltanto i vinti, buongustai di opere d’arte, fecero tabula rasa di tutte le pitture, mobili di antiquariato e biancheria di pregio. Nel 1905-1945 le monache ripeterono la terribile esperienza. Questa volta il nemico si servì del monastero solo come deposito per i camion da trasporto. L’ultimo giorno della resistenza, in paese, dove si erano istallati i partigiani, arrivò una colonna di SS. Tedesche. Dall’alto, gli aerei italiani sorvegliavano le operazioni. La popolazione di S. Giacomo era sfollata. Le monache rimasero sole e indifese, ma animate da una grande fiducia in Dio. La battaglia s’ingaggiò proprio nei pressi del monastero. “Sulle nostre teste – riferisce una monaca – le palle dei cannoni tedeschi s’incrociavano con quelle dei partigiani. E gli aerei italiani bombardavano….. Dalle colline limitrofe c’era chi seguiva le fasi del combattimento e diceva: - Le monache saran tutte morte! –“  Un Padre francescano di Vittorio Veneto, appena potè muoversi, volle farne constatazione. E venne al monastero. Trovò le monache spaventate, ma tutte salve. L’edificio se la cavò con qualche vetro rotto! Tanto fu grande, anche questa volta, la protezione del Cielo! Oggi, il monastero di S. Giacomo di Veglia ha un ruolo di carità ben distinto. Tutte le sofferenze umane vi fanno approdo. Ex-carcerati che devono reinserirsi nella società umana, drogati, emarginati, disadattati, disoccupati, divorziati, vedove, orfani tutti vi trovano larga accoglienza e comprensione fraterna in uno stile specificatamente benedettino che vede, nel sofferente e nel povero, il Volto di Cristo. La foresteria è aperta a tutti quanti desiderano ritemprarsi, moralmente e spiritualmente, all’ombra del monastero, con qualche giornata di raccoglimento e di distensione. A quanti chiedono consiglio per una scelta fondamentale, approfondimento nelle verità della fede, le monache offrono la loro parola e la loro preghiera come aiuto fraterno in questa ansiosa ricerca di Dio. Forte l’intesa tra  comunità parrocchiale e comunità monastica. Frequenti gli incontri di preghiera  in cui si fa comunione intorno all’altare. Viva la partecipazione ai problemi ecclesiastici, missionari, sociali ai quali le monache cercano di dare una risposta con un’offerta di sé sempre più generosa. Nella sua nascosta e umile operosità, il seme che muore si fa spiga e il lievito fermenta la massa…….

    

Testo tratto dal libro “Ordine Cistercense” 

 Foto tratta dalla rivista "Il Flaminio" scattata nel Novembre 1917